Borromini e Sant’Ivo

Questo testo è stato pubblicato in: Giulia LOMBARDI – Mauro MANTOVANI (a cura), Pensieri nascosti nelle cose. Arte, Cultura e Tecnica, LAS – Angelicum University Press, Roma 2015, pp. 401-410. 

Valore e Missione dell’Architettura Sacra nell’Opera di Francesco Borromini

 

Gli storici dell’arte concordano nel giudicare l’opera borrominiana una svolta nella storia dell’architettura, sacra e profana. Tuttavia, solo pochi vedono nelle costruzioni dell’architetto ticinese un richiamo ad antichi modelli orientali, e dapprima ai monumenti funebri di Baalbek o al palazzo dei Sassanidi a Biapur, ripresi già da Adriano in alcuni edifici particolarmente significativi della sua villa tiburtina e più tardi ravvivati in Occidente da Longobardi e Arabi. Ora, se non si tratta di «un nuovo mondo di forme architettoniche», di una «concezione dello spazio inteso come ininterrotta e dinamica continuità, caratterizzata dall’alternarsi di convessità e concavità», è doveroso chiedersi in che consiste dunque la svolta, perché di svolta si tratta indiscutibilmente. Trovare una risposta a tale domanda ci ad una indagine sulla funzione dell’architettura sacra e sulla sua importanza per l’ambiente circostante in ogni sua dimensione.

Evidenza archeologica e tradizione letteraria hanno dimostrato che l’essere umano comprendeva il suo vivere e operare in, per e con la comunità come liturgia divina, per cui il tempio non era tanto luogo privilegiato dell’incontro con la divinità, quanto centro di ogni attività civile - politico-amministrativa, giuridica ed economico-commerciale. Da questa convinzione della centralità del sacro anche nella vita quotidiana nasce verso la fine del sesto millennio av.C. la prima città, Hassuna, a nord di Samara nell’odierna Iraq, che si presenta da subito in una veste urbanistica perfetta: tutt’intorno al tempio gli edifici ‘pubblici’ e le abitazioni private. Tale sistemazione, esportata dai marinai e mercanti dell’antico Oriente in tutto il Mediterraneo, rimane la base anche delle seguenti modifiche, quando le attività ‘civili’ vengono trasferite nel palazzo. Inoltre, l’arredo musivo del tempio con la sua policromia serviva già da molto presto come strumento di educazione civica, affiancato in epoca classica dal teatro. L’importanza di tempio e teatro per educare i cittadini alla vita in comunità ha fatto sì che nel III sec. av.C. gli architetti degli Attalidi, ispirati dalla teleologia aristotelica, eliminarono a Pergamon tutte le barriere architettoniche, affinché nessuno rimanesse escluso da questo insegnamento.

Ora la Chiesa, che professa Dio Creatore di tutte le cose in cielo e in terra e Signore di tutta la storia - palcoscenico del dialogo tra Creatore e creatura, nonché tra le stesse creature, ai quali e nei quali Dio si è rivelato in molteplici modi in ogni momento e luogo (cf Hebr. 1,12) -, non poteva esaurire il mandato del Maestro: «Andate, ammaestrate tutte le genti, …» (Mt 28,19) in dispute filosofiche o insegnamenti etici puri e semplici. Così l’evangelizzazione affiancò ben presto alla catechesi in parola e lettera quella in simboli e immagini per approfondire alla luce del Vangelo la comprensione di ordine universale e armonia cosmica, che stanno all’origine di ogni cultura umana, sottoponendo il notevole materiale iconografico della religiosità pagana ad un attento esame.

Era ovvio che, una volta «uscita dalle catacombe», la Chiesa applicasse i principi di dialogo interculturale e catechesi visualizzata anche all’architettura sacra, optando tuttavia non per l’architettura templare, bensì per quella dell’Aula Regia, dove il sovrano riceveva ambasciatori e sudditi. Tale scelta doveva sottolineare che non un uomo, fattosi dio, poteva salvare l’umanità, ma solo Dio, fattosi carne, morendo in croce e risorgendo aveva «restituito Dio all’uomo e l’uomo a Dio», come aveva scritto Tertullliano circa un secolo prima. E l’Aula Regia, come era stata elaborata soprattutto dagli architetti della dinastia Flavia e di Adriano, rispondeva benissimo a questa esigenza: una pianta a croce absidata e con l’altare dinanzi al trono.

L’idea dell’Aula Regia rimase immutata anche durante tutto il periodo alto-medievale, quando le robuste costruzioni delle chiese e cattedrali romaniche attestavano di essere non solo centri di vita religiosa, ma anche di tutte le attività civili, legate da millenni alla vita comunitaria, nonché rifugio e difesa in caso di incursioni ed elemento pacificante e unificante, che sapeva inserire nell’eredità artistica le espressioni culturali dei nuovi popoli confluiti in Occidente. Senza esagerazione si può affermare che se i templi dell’antica Roma avevano costruito e conservato un impero, le chiese romaniche hanno fondato e consolidato un continente: Europa.

Purtroppo, le forme troppo robuste e le tante attività “in temporalibus” avevano non di rado distolto lo sguardo dall’essenza e dagli “spiritualia”, per cui le invasioni di fine millennio e l’eresia millenarista trovavano i fedeli spesso impreparati ad affrontare le crisi. Così, una volta superata la “sindrome dell’Anno Mille”, autorità ecclesiastica e laici furono concordi nella ricerca di un’architettura sacra più rivolta alle cose del Cielo. L’incendio della Cattedrale di Chartres nel 1194 doveva segnare l’arrivo di uno stilo più etereo, più lanciato verso il cielo, ma anche più aperto alla bellezza divina riflettuta dalla creazione e visualizzata dall’arte. Inoltre si pensava di favorire un maggiore sensus religiosus, staccando i centri della vita pubblica (amministrativa e giuridica) e finanziaria (mercato) dallo spazio che circondava la chiesa. Tuttavia, a lungo andare anche questa separazione mostrava i suoi lati deboli, in quanto la separazione tra sacro e profano si ripercuoteva anche sui comportamenti dentro e fuori della chiesa.

Perciò, passati i travagli del Trecento causati da pestilenze, lotte esterne e dissidi interni, furono gli abitanti di una città, Firenze, a ripensare - non a far “rinascere” - ciò che erano state le autentiche espressioni e voleri culturali del passato. Più che non la timida ripresa economica dovevano una ritrovata stabilità politica e un rinnovato equilibrio sociale convincere che una nuova aurora era sorta, annunciando il ritorno della sempre sospirata aetas aurea. Spettava alle Belle Arti – e dapprima a quelle sacre - visualizzare tale ritorno.

Così si affida a Manuel Chrysoloras, ripetutamente ambasciatore della corte bizantina a Firenze, nel 1394 la cattedra di lingua e letteratura greca presso lo Studium Florentinum, un incarico che egli inaugura con la pubblicazione della Politeia di Platon, in quanto l’evocazione dell’antichità classica è dapprima uno stimolo morale, che aspira ad attuare la virtus degli antichi nelle realtà presenti. E furono proprio cattedrali e monasteri con i loro arredi sacri, ma anche ospedali e ospizi i primi destinatari di questo stile, antico e nuovo insieme. Anzi, nella Cappella Ovetari a Padova Andrea Mantengna concepisce i martiri dei primi secoli come coloro che con il proprio sangue versato hanno purificato i monumenti pagani da renderli degni di essere inseriti a pieno titolo nel repertorio artistico della Chiesa.

Per questo rinnovamento di programmazione e orientamento culturale, definito da Leon Battista Alberti nella sua Descriptio Urbis Romae (1431), Santa Maria del Popolo, dove regna sovrana la spiritualità agostiniana del De Civitate Dei e del De Trinitate, era destinata a diventare il prototipo dei canoni di un’architettura sacra, preferita in seguito dallo stesso Concilio di Trento, e a giocare un ruolo determinante nel riaffermare un’Europa cristiana che affonda le sue radici nella cultura antica e oltrepassa notevolmente gusti e limiti di un’effimera «moda» antiquaria, ribadendo i principi della continuità tra antichità pagana e civiltà cristiana, e riproponendo la concezione dell’architettura sacra quale visualizzazione per eccellenza dell’armonia cosmica.

Purtroppo fu proprio un monaco di Santa Maria del Popolo, Martin Luther, che rifiutò con la sua riforma questi concetti come pagani. Tra i compiti del Concilio di Trento doveva annoverarsi perciò anche quello di elaborare modi e forme atti a ridare alla comunità umana un linguaggio culturale, nel quale tutti potevano riconoscersi e ritrovare orientamenti e paradigmi e per la vita civile di ogni giorno. Purtroppo, in un primo momento mancava ai decreti conciliari una pacata e oggettiva lettura e applicazione alla luce della realtà storica, per cui prevalse una rigorosa censura delle opere d’arte, giudicate non come prima per ragioni di gusto o di qualità, bensì in base alla loro correttezza devozionale, un principio che molti equiparavano alla cattura dell’arte sacra in una soffocante rete di schemi e formule convenzionali. Fu una sentenza altrettanto esagerata, quanto era stata anteriormente l’eccessiva libertà accordata agli artisti.

Comunque, nonostante le tante nuvole che oscuravano il cielo nella seconda metà del Cinquecento, Roma si rivela già alla fine del secolo ancora una volta l’urbs aeterna, prescelta dalla Divina Provvidenza, la quale supera ogni umana attesa e speranza. Infatti, non erano passati quarant’anni dalla chiusura del Tridentinum, quando l’attenzione dell’Europa e di tutta l’ecumene allora conosciuta si rivolse nuovamente alla città sul Tevere come centro di un cattolicesimo rinnovato dal concilio e rafforzato da un protestantesimo ormai in ritirata su posizioni difensive. Consapevole del ruolo centrale riconquistato da Roma, papa Sisto V avvia – come già un secolo prima Sisto IV restaurator urbis - un imponente piano di rinnovamento urbanistico che si protrarrà fino al pontificato di Paolo V e trasformerà Roma nella più grande città del tempo. L’intero progetto che getta le basi per una nuova comprensione dell’area urbana radicata nella continuità monumentale e scenografica di strade e piazza, dove edifici sacri e profani, fontane, monumenti e giardini diventano punti di convergenza prospettica ma anche di assi visivi che conducono all’infinito, è affidato a Domenico Fontana, al quale si affiancano il nipote Carlo Maderno, Giacomo della Porta e altri.

Va da sé che un posto privilegiato spettava all’architettura sacra, visto che si trattava di Roma capitale del cattolicesimo. Con le salve dei cannoni di Castel Sant’Angelo si era annunciato «Urbi et Orbi» la conclusione ufficiale dei lavori per la Basilica Vaticana nel Natale 1589, e l’architettura sacra era libera di scegliere per le nuove costruzioni tra lo schema rinascimentale della pianta centrale oppure di quello a navata longitudinale proposta dal Tridentinum. Con straordinario equilibrio e saggezza gli architetti optano per un’integrazione dei due schemi, in fondo già presente nella pianta del Gesù, nonché per un più accentuato rapporto tra chiesa e ambiente urbano. Appunto per questa ragione spira anche nelle facciate delle chiese un nuovo vento, captato per la prima volta da Carlo Maderno nel prospetto di Santa Susanna. Pur mantenendo lo schema a due ordini sovrapposti, l’architetto, che più di altri doveva aprire la strada alle innovazioni di un Bernini, Borromini e Pietro da Cortona, concentra la plasticità progressivamente dai lati verso il centro con effetti chiaroscuri, nonché con la sequenza lesene – semicolonne – colonne. In tal modo egli accentua l’importanza della porta d’ingresso nell’ordine inferiore e della porta-finestra per le benedizioni in quello superiore.

Si può quindi affermare che alle iniziali perplessità e sconcerti seguirono anni di giustificata autocritica e di fruttuosi ripensamenti, attitudini che già allo scorcio del Cinquecento confluivano in proposte conservatrici e innovatrici insieme in ogni campo dell’arte sacra. Queste proposte basate sia su una buona conoscenza del passato, sia sulla volontà di dialogare anche con l’area circostante fecero sì che gli edifici sacri e i loro arredi ritornavano non solo a essere «catechesi visualizzata», ma anche – e questo è la grande innovazione causata dal Concilio di Trento - «consiglio e paradigma» per l’arte profana. L’arte del Seicento si configura perciò sin dall’alba del secolo come una grande civiltà dell’immagine, che fonde una serena ed equilibrata lettura delle disposizioni tridentine con caratteri di rottura con le tradizioni passate ma anche con tendenze saldamente radicate proprio in quelle tradizioni. Risultato ne è un arte monumentale e figurativa superba e fastosa, che nasconde tuttavia sotto splendide vesti – esattamente come i preziosi marmi coprono i nudi muri - una realtà ben diversa, segnata da lacerazioni, crisi economica e malessere politico e sociale.

Così si rafforza, man mano che il potere educativo e unificante dell’arte diminuisce, quel tipo di arte, non ignota nel corso dei secoli e millenni, asservita come strumento di persuasione. Il contrasto tra la politica della cultura e la realtà della condizione sociale crea una tensione che porta in germe le reazioni del Sette- e Ottocento. E quando già verso la fine del Seicento si manifestano i primi bagliori dell’imminente tempesta, l’unica città in grado di mantenere più a lungo il suo ruolo di capitale a livello europeo sarà Roma, non in ultimo grazie all’ininterrotto affluire di artisti italiani e stranieri che soggiornano nell’urbs e vi sviluppano un’attività di una ricchezza di aperture e articolazioni tale da permettere a Roma di diventare già verso il 1630 punto di riferimento per tutta l’Europa nel campo non solo di arte e architettura sacra, ma anche in quella profana nonché nell’urbanistica.

Il ritorno all’antico concetto di «Roma – communis patria omnium», senza meno dovuto anche all’attenuazione del rigido e severo controllo dell’immediato post-Tridentino, è comunque in grandissima parte merito del provvidenziale incontro di due personaggi altrettanto colti quanto animati da ambiziosi progetti per la Chiesa e per Roma, che seppero contornarsi con altre personalità di spicco e spronarle nei loro sforzi al servizio della «Una, sancta, catholica et apostolica» e in favore di Roma centro del mondo cattolico, e non solo di questo: Urbano VIII Barberini e Gian Lorenzo Bernini.

Brillante ed estroverso, il Bernini domina le tecniche della scultura e ricorre a forme dell’architettura antica, al loro grandioso respiro e ai marmi preziosi, che sono per lui strumenti di persuasione di una Chiesa universale non solo in senso geografico, bensì in quello storico e storico-culturale. L’artista-amico dei Barberini visualizza nelle sue opere La Gloria della Chiesa vittoriosa anche nei momenti più bui e disperati, e trionfante sul male che Cristo ha sconfitto una volta per sempre morendo in croce e risorgendo trasfigurato dal sepolcro. Il discorso del Bernini soprattutto nel progetto per l’altare papale e i quattro piloni in San Pietro è - e vuol essere – come il suo carattere improntato all’ottimismo che rassicura. Con le parole di Fedor Dostoevskij si potrebbe dire: «Cristo è risorto – i nostri peccati ci sono perdonati» (Delitto e Castigo). Questa convinzione, e non solo l’amicizia con i Barberini, causa il moltiplicarsi degli incarichi, che non spaventano il Principe dell’Accademia di San Luca. Con «partenopea» calma ed amabilità egli organizza una nutrita schiera di aiuti e collaboratori, tra i quali spiccano in particolare due: Pietro da Cortona e Francesco Borromini.

Giunto a Roma nel 1612/13, Pietro da Cortona può definirsi il maestro audace e appassionato della logica spaziale e della luce che si cala dall’alto per invadere progressivamente anche gli angoli più ombrosi di tutto l’ambiente circostante. Il suo tema di fondo è perciò Il Trionfo dei Santi che, animati dalla fede, hanno respinto le tenebre e conferito un’immagine dell’armonia cosmica alla loro vita terrestre, per cui continuano irradiare luce e speranza per l’umanità intera e per tutto il creato. Con questa interpretazione dell’intercessione e protezione dei Santi l’artista toscano riprende, con mezzi diversi, il tema dell’Apocalisse di san Giovanni, tanto caro alle chiese romaniche e gotiche.

Le concezioni, che il Bernini e Pietro da Cortona esprimono nelle loro opere, suscitavano senza dubbio stupore e ammirazione in chi le guardava, ma provocavano anche sgomento in quella umanità che si era arrogato di essere misura di tutte le cose, e che aveva dato al pensiero la precedenza sull’essere. Parlare all’uomo di «Gloria della Chiesa» e di «Trionfo dei Santi», non significava ciò acuire la drammaticità della situazione, la quale egli stesso si era creato con la sua superbia? Non doveva un tale discorso portare alla disperazione colui che, forte nell’arroganza, non aveva il coraggio di essere un eroe nelle difficoltà?

La Divina Provvidenza opera fino in fondo, è così doveva accanto ai maestri di Gloria e Trionfo – e insieme a loro – svolgere la sua attività e proporre la sua concezione dell’architettura sacra un terzo: il Borromini. Francesco Castelli nasce nel 1599 a Bissone (Canton Ticino), pochi anni dopo la morte del cardinale san Carlo Borromeo. Questi aveva non solo assistito gli appestati, distribuito elemosine ai bisognosi, creato ospizi per gli orfani, istituti per le ragazze pericolanti, ma aveva soprattutto incoraggiato l’opera di catechesi e carità durante le sue ripetute visite apostoliche nell’estesissima arcidiocesi di Milano. Tale fervoroso impegno per il bene spirituale e materiale dei suoi fedeli aveva profondamente impressionato sia quelli che avevano conosciuto il santo cardinale, sia quelli che avevano sentito parlare di lui. Tra questi fu anche il giovane Francesco, il quale, giunto nel 1620 a Roma, cambiò qui il nome in Borromini che per lui costituiva tutto un programma: voleva prendersi cura dell’essere umano nella sua miseria essenziale ed esistenziale.

Introverso, agitato e intransigente di natura, Francesco proveniva dalla formazione artigianale di scalpellino e intagliatore in pietra ed era continuamente assalito dalla ricerca di vie e attività per servire la Chiesa, Roma e l’umanità: basti pensare che alla sua morte egli possedeva oltre mille libri, che attestano i suoi interessi anche per altre discipline. A Roma un parente lo introduce nel cantiere di San Pietro, dove lavora dapprima da modesto intagliatore di particolari decorativi e rimane affascinato dall’opera di Michelangelo. In seguito, un altro suo parente, Carlo Maderno, gli affida compiti più qualificati e qualificanti come collaboratore ed elaboratore di disegni architettonici, per cui il Borromini gli serberà sentimenti di profonda riconoscenza. Nel suo testamento egli esprime il desiderio di esser sepolto senza alcuna iscrizione nella tomba del Maderno a San Giovanni dei Fiorentini. Infine, nel 1632 è lo stesso Bernini a proporlo come architetto per continuare e completare i lavori all’archigymnasium della Sapienza, iniziati da Pirro Ligorio e Giacomo della Porta.

Pur continuando l’opera di quest’ultimo e accettando la pianta a croce greca per la chiesa, questo incarico offrirà al Borromini la possibilità di realizzare una delle sue più straordinarie creazioni: Sant’Ivo alla Sapienza, la cui cupola con il singolare tamburo richiama da un lato le colonne tortili del Baldacchino nella Basilica Vaticana, d’altra parte «visualizza» la tortuosa ascesa dell’essere umano e cristiano al trionfo della Croce. Ma sarà soprattutto l’Interno, dove egli propone un’architettura che visualizza Il Tormento e l’Estasi dell’Essere Umano che solo nell’accettazione della Croce trova la Redenzione per sé e per tutto il Creato, al quale alludono le pareti a sei convessità che, disposte in due triangoli equilateri, sostengono la cupola con gli stucchi a stelle a sei punte (hexaemeron) alternate ad altre a otto (octava dies), trasformazione operata dalla discesa dello Spirito.

Giacomo della Porta aveva, da degno collaboratore e continuatore dell’opera di Michelangelo, concepita una pianta a croce greca. Perciò, pur volendo conferire movimento alle pareti, sarebbe stato ovvio iscriverla in un cerchio a quattro absidi. Ma il cerchio, dove inizio e fine coincidono, è simbolo del perfetto e assoluto. Ora, nulla in questo mondo è perfetto e assoluto, ragione per cui il Borromini trasforma l’originaria pianta cruciforme in un’elisse absidata e presenta l’edificio come un insieme organico di forze che nella loro contrazione, rispettivamente espansione realizzano non solo lo spazio, ma rappresentano soprattutto la realtà della vita macro- e microcosmica con l’alternarsi di alti e di bassi, di gioie e di sofferenze. Nella simbologia antica ma anche nella geometria l’elisse è considerata come la forma che tende alla sfericità per raggiungerla nell’infinito. Inoltre, la pianta ovoidale era quella tipica degli stadi, e già san Paolo aveva paragonato la vita propria e di ogni cristiano a quella di un atleta che corre nell’arena e cerca di non perdere di vista la meta (cfr. I Cor 9,24-30).

Così l’Interno di Sant’Ivo ci pone dinanzi a un concetto dell’architettura sacra, che con le sue contrazioni ed espansioni esprime le tensioni dell’umanità, mentre il candore delle pareti vuole rassicurare l’essere umano capax Dei e indigens Dei di non disperarsi nelle tante concavità dei travagli, ma riconoscere fiducioso le non meno numerose convessità delle consolazioni divine già in questo mondo, consapevole che nemmeno nelle vita spirituale esiste un’ascesa diretta verso la gloria. Di conseguenze, la facciata dall’ampia curvatura ci introduce nella particolarissima ecclesiologia del Borromini: sembrano le braccia aperte ed estese in avanti di una madre che invita ad entrare in casa perché vuole raccogliere tutti i suoi figli per proteggerli, consolarli e rinfrancarli. Questa simbologia dell’accoglienza, che il Borromini ripeterà anche nelle facciate di San Carlo alle Quattro Fontane, di Sant’Agnese in Agone e dell’Oratorio Secolare, venne percepita dallo stesso Bernini con tanto entusiasmo da fargli chiedere e ottenere il permesso di papa Alessandro VII di cambiare il progetto del colonnato in Piazza San Pietro da quello rettangolare di Michelangelo in questo ellittico del Borromini, perché l’accoglienza è parte integrante della Chiesa.

Le proposte architettoniche del Borromini e soprattutto la sua interpretazione di valore e missione dell’architettura sacra dovettero apparire sconcertanti a molti allettati dalla propaganda trionfalistica dei marmi policromi, ma - apprezzato dallo stesso Bernini e da Pietro da Cortona - per alcune famiglie del patriziato romano meno ansiose di ostentare le proprie ricchezze e più attente alla gloria di Dio e ai bisogni del prossimo, come pure per alcuni Ordini dediti alle opera di carità e assistenza nonché all’apostolato popolare (i Minimi di san Francesco di Paola, i Trinitari Scalzi e gli Oratoriani di san Filippo Neri) esse esprimeva un orientamento spirituale, culturale ed estetico incentrato sul autentico trionfo della Chiesa che soffre e porta la propria croce nella sequela del Signore per la redenzione di tutto il creato e la venuta della Octava Dies.

Così i Trinitari Scalzi, un ramo riformato dei Carmelitani, gli affidano nel 1634 l’incarico per la ricostruzione della loro chiesa e convento. Non più vincolato da precedenti progetti, a San Carlo alle Quattro Fontane l’«artigiano» che preferisce materiali poveri nobilitati dalla perizia tecnica e dall’etica dell’artista conscio dei propri obblighi verso la comunità degli «onesti cittadini e buoni cristiani» (Don Bosco), può – finalmente e liberamente – esporre tutta la propria spiritualità ecclesiologica ed escatologica, quasi una meditazione in pietra sugli scritti di san Giovanni della Croce, la sua Salida al Monte Carmelo e la Noche oscura del alma. Infatti, sopra un vano a pianta ovoidale dalla dialettica tra concavo e convesso si alza la cupola che con il suo incrociarsi di cassettoni a croci, esagoni e ottagoni si protende verso il luminosissimo lanternino, testimoniando alla Croce di Cristo che non abbandona mai la creazione (esagono) e, presente nella vita di ogni credente, l’accompagna fino a quando giungerà alla Octava Dies (ottagono) illuminata dalla Luce eterna.

Già pochi anni più tardi, nel 1637, anche gli Oratoriani si rivolgono a lui, perché traduca in mattoni lo spirito e il carisma del loro fondatore, san Filippo Neri. Anche se altri dovettero completare l’opera borromoniana, le facciate, la Sala dell’Oratorio, le due sale ellittiche per il refettorio e la ricreazione, nonché la Torre dell’Orologio testimoniano tuttora alla traduzione in pietra della loro catechesi in parole e opere. Infine, Francesco Borromini viene nel 1653 invitato dai Minimi di san Francesco di Paola a portare a termine la costruzione della Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, aggiungendovi l’abside semiellittica, il tiburio e soprattutto il campanile, che, impostato su pianta quadrata, evidenzia con i suoi ordini differenziati (concavi e rotondi) e il coronamento mistilineo una dinamica in netto contrasto con l’andamento ortogonale del tracciato stradale, mentre cherubini trasformati in erme e volute sostengono in alto la croce di sant’Andrea, significando ancora una volta che la soluzione delle tensioni non può trovarsi al di fuori della Croce e in un ordine imposto dall’uomo. E non poteva essere diversamente in uno spirito in continua ricerca dell’essenziale, che aveva scelto un san Carlo Borromeo e un Michelangelo come suoi ideali.

Infine, va almeno accennato all’incarico, che papa Innocenzo X Pamphili da all’artista nel 1646: quello di ristrutturare l’Arcibasilica Lateranense per il Giubileo del 1650. Ancora una volta il Borromini dimostra il suo rispetto di fronte alle antiche strutture, spostando la tensione da orizzontale in verticale. Purtroppo, il progetto, altrettanto audace quanto sublime, che avrebbe dovuto visualizzare il dialogo tra Dio Creatore e Re dell’universo e le sue creature, non venne mai realizzato, perché non si voleva distruggere il sontuoso soffitto ligneo cinquecentesco. Ma una cosa non si è potuto negare al Borromini: la pianta semi-ellittica che alla congiunzione con il transetto non continua in un’abside ellittica bensì in una emisferica. L’ovale è diventato cerchio, perché qui si è giunti all’Infinito.

L’architettura sacra, che nel lontano sesto millennio av.Cr. aveva generato la prima città, si era nel corso dei seguenti secoli e millenni sempre più allontanata dalla sua natura sacra, immergendosi, sia pure con le migliori intenzioni, nel mondo che l’umanità aveva alienato al suo essere kosmos, immagine della bellezza divina. Vi erano stati numerosi e notevoli tentativi di ritrovare la strada verso l’originale armonia cosmica. Ma fu un «modesto scalpellino», Francesco Borromini che, impressionato dall’antropologia autenticamente cristiana di san Carlo Borromeo e di Michelangelo, ha saputo con «materiali poveri nobilitati dalla perizia tecnica e dall’etica dell’artista» porre l’uomo davanti alla sua finitudine creaturale, le cui limitatezze solo Dio, fattosi uomo, ha potuto abbattere. Hans Urs von Balthasar ha affermato: “Non esiste ascensus hominis se non è preceduto dal descensus Dei”. L’architettura borrominiana non fa altro che ribadirlo in pietra.

Beatrix Erika Klakowicz ( † 2016)

 

(Dr. phil., Dr. theol.)


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